La continuità esiste: tutti frequentano Brera e questo significa che il fascino persiste. Ma i problemi sono abissali, ora come allora. Un tempo noi siamo stati costretti a fare i conti col dopoguerra con ciò che esso trascinava con sé. Eravamo gente che aveva vissuto l’adolescenza in tempo di guerra, aveva vissuto l’ultimo fascismo, quello particolarmente feroce, aveva conosciuto i partigiani e poi la ricostruzione e le sue conseguenze in termini di documentazione degli eventi: i campi di concentramento e la bomba atomica, episodi le cui notizie esplodevano nelle coscienze; negli scritti, nei testi, c’era un’implicazione di questi avvenimenti, da cui sgorgarono problemi che ebbero una forte presenza nel nostro immaginario e soprattutto nell’etica. Eravamo ragazzi che spalancavano gli occhi di fronte al disastro che era avvenuto e ci chiedevamo come mai fosse accaduto e ci avesse travolto in quel modo. Queste cose erano presenti, vivide.
L’attualità è tutta un’altra questione. Oggi trionfa la tecnologia, la socialità, la globalizzazione che spingono la riflessione in altre direzioni; sul fondo, magari, alcune cose del passato permangono:
la domanda “chi è quest’uomo?” è sempre presente, ma tocca altri sviluppi, altre rappresentazioni, molto evidenti nella ricerca dei giovani d’oggi.
Qualche anno fa, uno studente di Brera scrisse una tesi che affrontava proprio un argomento simile. Il rapporto con esempi del passato. Lui parlò, nello specifico, anche di realismo esistenziale. Ma ne trasse una conclusione particolare. Osservò i trascorsi con nostalgia. E la nostalgia nasceva dal fatto che, nel dopoguerra, le esperienze vissute dai giovani erano vere, intense, sofferte, rispetto all’attualità dispersiva, leggera, effimera, non individuabile, difficile da afferrare e da discutere.
I modelli ci sono, ma sono altri. Nella pittura, tanti guardano ancora a Basquiat che è diventato ormai un riferimento; oppure agli artisti pop che hanno dilagato, dimostrando che la tecnologia, la ripetitività, l’ironia intorno all’estetica delle cose poteva essere utilizzabile. Un modello è certamente quello della fotografia come suggerimento immaginativo di qualcosa che può essere utilizzato introdotto e manipolato. Ma non è certo una novità. Già negli anni Cinquanta era importante. Bepi Romagnoni l’aveva usata in modo molto personale, trasformando l’immagine fotografica, portandola all’interno di una macchinazione delle forme che suggeriva e diventava altro perché sotto c’era sempre la fotografia come base e spunto. Anche per Gianfranco Ferroni, sotto alle sue composizioni fiamminghe, emerge il dato fotografico. La fotografia appartiene, come diceva Benjamin, alla riproducibilità. Perché mai mettersi a studiare la forma della figura con la matita e il carboncino, quando attorno a noi siamo già pieni di figure suggerite, predisposte da un obiettivo? Il discorso fece discutere la nostra generazione, ma mi rendo conto che oggi sia forse superato. Bisogna attingere a modelli ancora più recenti. Che tuttavia scarseggiano.
Il problema attorno ai processi tecnologici che oramai modificano il nostro rapporto con l’immagine può esser risolto con questo ritorno alla pittura. Altro problema è il rapporto con la concettualità dell’arte povera e affini. Davanti alla collezione di François Pinault per esempio rimango sempre perplesso. Mi stupiscono i colpi geniali del contemporaneo, ma capisco che appartengono a un altro mondo e non al discorso attorno alla pittura. Non è giusto metterli insieme. Credo sia arrivato il momento di separare alcuni aspetti; da Duchamp in poi, i sentieri si sono divaricati. E la pittura vive comunque, anche se il gesto duchampiano è stato dirompente e ha trascinato con sé gli sviluppi dell’arte odierna. Perciò, sentire che c’è un ritorno alla qualità del segno, della materia o del colore mi rincuora.
Mentre nei bar di Brera le chiacchierate vertevano sugli aspetti della retorica fascista, c’era chi, come noi, si sentiva finalmente libero di impostare la cosa in modo diverso. Io, che venivo dall’esperienza adolescenziale della guerra e dalle sue conseguenze, non ero interessato al gioco della rappresentazione, non era attraente rispetto al peso che portavo dentro. Era interessante ma non mi attirava. Mi attiravano invece problemi che urgevano in un altro modo; leggevo certe cose, guardavo quello che accadeva in ambito esistenzialista. Lì avevo trovato gli interrogativi che avvertivo essere personali, mi intrigavano, mi tiravano dentro. Nel 1952 a Parigi, dove tornai poi nel 1958 con Romagnoni, i quadri cubisti sferrarono ai miei occhi un colpo di grande effetto; mi colpivano tante cose diverse che stavano insieme nella formazione di un ragazzo di vent’anni. Tutto questo per dire che il sistema è sempre coercitivo, l’accademia è senz’anima. E chi si oppone può farlo armato anche di pittura, purché sia libera di esprimersi, di rompere gli argini. Cosa che si può tranquillamente fare ancora adesso, mentre le “star” del contemporaneo perdono tempo a spettacolarizzare il nulla.
Quella era una trovata. La pittura è un destino. Cosa si andava a fare a Brera, con Morlotti, Cassinari o Carpi, che era persona meravigliosa eletto direttore per acclamazione, se non per trovare nella pittura un nuovo alleato? Tuttavia Brera, nelle cui aule trascorrevamo tutti i pomeriggi a lavorare, esercitò su di noi una sorta di protezione. Ci mantenne lontani dalle lusinghe del superfluo.
Anche io ho dipinto molti quadri il cui titolo è Natura domestica. Fin dall’inizio degli anni Settanta, ho sempre viaggiato all’interno di alcuni problemi che ho tradotto in paesaggi interiori. In caserma, per esempio, durante il servizio militare, mi impressionavano le immagini rubate alle cucine. Il pollo, la baracca, i fili di ferro mi sembrava potessero esprimere molti più contenuti importanti per lo spirito dell’uomo rispetto ai classici racconti militari. Negli anni Ottanta la stessa natura orfana è diventata una figurazione organica. È stato un passaggio di stato che la pittura ti concede sempre. Quando si comincia a dipingere, si parte con decisione, poi ci si ferma, si ricomincia, si produce, si torna indietro, si cancella, si medita, si riparte. Perché lo si fa? Perché il nostro tempo è questo, produce novità quotidiane e noi siamo in crisi continua. Viviamo la bidimensionalità non come un limite, ma come un lasciapassare per la profondità. Pensando al famoso doppio cono visivo, come nel capolavoro di Diego Velázquez Las Meninas, si percepisce la presunzione fantastica della pittura: immortalare il “qui” insieme all’altrove. Questa cosa rappresenta una sollecitazione continua dello sguardo. Si lavora su una superficie, che è un piano, con riferimenti ortogonali, usando il colore, il segno e si producono effetti di affondo in prospettiva. Qui c’è tutta la ricchezza della pittura e il genere del paesaggio, comunque lo si intenda, è il contenitore migliore all’interno del quale esercitare questa estrema difficoltà che mette alla prova la tecnica e lo spirito più di qualsiasi altro mezzo espressivo, perché dipingere è complicato.
La storia di un pittore è tutta qui. In questa sua complessità, nel vivere la propria crisi, di tempo in tempo, interessato a capire cosa avviene nella sua operatività. Il rapporto con la superficie è sempre problematico, soprattutto in questi ultimi decenni in cui la pittura sembra una cosa sorpassata. Perché si dipinge? Questa domanda diventa essa stessa un problema. Bisognerebbe chiedere a chi lo pratica. “Perché lo fai?” Io ho sempre risposto che per me era una pulsione, una sorta di stimolo e di spinta intima che mi portava a manifestare nelle immagini il profondo. Visti i traumi subiti, la nostra generazione crebbe fiduciosa; e la pittura è un atto di fiducia, operativo ed espressivo, irrinunciabile. È una esigenza di cui ti appropri in modo deciso. Nessuno ti obbliga. Appena entri dentro il suo mondo, non ne esci più. È una necessità che ti trascina in modo tale da diventare la tua vita, le tue ragioni, le tue possibilità.
Proseguire a testa bassa. È talmente radicato in noi un bisogno come questo, è un pozzo pieno di evenienze, che merita di essere espresso. Non solo con la tecnica, ma col racconto che – quando ha un valore universale – è inarrestabile.
(Milano 18 settembre, conversazione tra Mino Ceretti, Chiara Gatti, Giorgio Seveso e Aldo Mari. Trascrizione di Chiara Gatti)
testo estratto dal catalogo della mostra
ALTRI PAESAGGI. La giovane pittura e l’ambiente naturale contemporaneo
Premio Morlotti Imbersago- 16° edizione
a cura di Giorgio Seveso e Chiara Gatti
visitabile al Museo della Permanente, fino al 9 dicembre 2018
orari: tutti i giorni, dalle 9.30 alle 20.00
Ingresso libero